NAYLA™ PHOTOGRAPHY STUDIO

Scena prima: La sfinge – l’altro io

La sfinge è la creatura con cui Leonor Fini identifica sé stessa, come essere ibrido, mutante, potente e travolgente. L’artista incontra la figura della sfinge nella scultura in porfido rosa – un originale portato dall’Egitto – custodita nel Castello di Miramare a Trieste, città che le concede incontri ripetuti con altre figure allegoriche, come le cariatidi o i mascheroni noti come panduri. Creatura ibrida, custode e nemica, la sfinge diventa la figura che con la sua ambiguità e complessità seduce Leonor Fini nella definizione del suo carattere di artista libera da convenzioni e stili.

Scena seconda: L’uomo inerme – morte o sonno

Appena adolescente, Leonor Fini visita l’obitorio di Trieste dove ha la visione sconvolgente di un corpo morto, descritto in seguito come di una bellezza straordinaria in riferimento ai ricchi tessuti, i collari e i fiori con cui la sua famiglia gitana lo copriva e scopriva ritualmente.  Nell’opera pittorica dell’artista torna ripetutamente l’immagine di uomini addormentati e inermi, apparentemente morti - ispirati dalla tradizione pittorica del Cristo morto - comunque succubi della potenza femminile.

Scena prima: La sfinge – l’altro io

La sfinge è la creatura con cui Leonor Fini identifica sé stessa, come essere ibrido, mutante, potente e travolgente. L’artista incontra la figura della sfinge nella scultura in porfido rosa – un originale portato dall’Egitto – custodita nel Castello di Miramare a Trieste, città che le concede incontri ripetuti con altre figure allegoriche, come le cariatidi o i mascheroni noti come panduri. Creatura ibrida, custode e nemica, la sfinge diventa la figura che con la sua ambiguità e complessità seduce Leonor Fini nella definizione del suo carattere di artista libera da convenzioni e stili.

Scena seconda: L’uomo inerme – morte o sonno

Appena adolescente, Leonor Fini visita l’obitorio di Trieste dove ha la visione sconvolgente di un corpo morto, descritto in seguito come di una bellezza straordinaria in riferimento ai ricchi tessuti, i collari e i fiori con cui la sua famiglia gitana lo copriva e scopriva ritualmente.  Nell’opera pittorica dell’artista torna ripetutamente l’immagine di uomini addormentati e inermi, apparentemente morti - ispirati dalla tradizione pittorica del Cristo morto - comunque succubi della potenza femminile.

Nel corso della sua carriera, Leonor Fini mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’interpretazione biografica della sua pittura: se in alcune dichiarazioni respingeva l’idea sostenuta da critici e storici dell’arte, in altre affermava di non essere stata capace di resistere alla tentazione dell’autorappresentazione e della confessione. Con questa premessa apre il percorso espositivo, che raccoglie una selezione di opere emblematiche delle esperienze giovanili vissute dalla Fini, che hanno lasciato un segno nel suo immaginario e che come scene compaiono ripetutamente nella sua produzione fino ad assumere il valore di pilastri concettuali. Ne sono testimonianza opere come Le Bout du monde (Fée à Beltem) (1953) e Voyageurs en repos (1978).